Rifugi climatici nell’economia della conoscenza
In questi giorni roventi, mentre le città si trasformano in isole di calore soffocanti, le Regioni approvano provvedimenti specifici e gli esperti ripetono che le ondate saranno sempre più frequenti e intense, la montagna riemerge come potenziale rifugio climatico. Sbaglia, però, chi pensa che sia solo una fuga estiva: in realtà è una traiettoria che sempre più giovani — spesso qualificati, spesso precari — decidono di intraprendere stabilmente. È quanto emerge, ad esempio, dalle analisi contenute nel volume “Migrazioni verticali”, curato da Andrea Membretti, Federico Barbera e Matteo Tartari: un controesodo silenzioso e intelligente, dove la ricerca di vivibilità si intreccia a nuovi approcci e nuove visioni delle Terre Alte.
La montagna, per troppo tempo considerata periferia del sistema economico, oggi torna rilevante per almeno tre motivi. Primo: offre un vantaggio climatico oggettivo, sempre più cruciale in un pianeta che si surriscalda. Secondo: è spazio disponibile, fisico e simbolico, dove sperimentare forme di abitare e produrre meno vincolate dalle logiche estrattive urbane. Terzo: attiva circuiti di apprendimento diffuso, spesso informali, ma con un altissimo contenuto cognitivo. Le esperienze raccolte da MICLIMI (Migrazioni Clima Montagna in Italia) mostrano chiaramente che chi sceglie di salire in quota non è in fuga, ma alla ricerca. Di nuovi significati, nuove esperienze, nuovi stili di vita.
In molte aree montane, dall’Appennino padano alle Alpi orientali, si osserva così un ritorno consapevole. Non un ritorno al passato, ma un passo avanti: giovani agricoltori, progettisti culturali, artigiani digitali, maker e freelance sperimentano modelli di vita e lavoro sostenibili, costruendo micro-economie resilienti. Attenzione, però, a non cadere vittime della nostalgia, un sentimento collettivo diffuso nelle aree interne e montane, quelle periferie che ancora sono e si sentono escluse dai grandi circuiti dell’innovazione, dello sviluppo e del futuro.
In questa prospettiva, appare necessario che anche in questi territori di margine possano nascere e svilupparsi start-up, piattaforme digitali, poli di alta formazione, spazi di coworking e nuovi centri di produzione culturale e tecnologica che collaborano con le imprese della manifattura locale. Si passa così da un modello di distretto industriale, spesso chiuso e autosufficiente, a un ecosistema aperto, interconnesso, orientato all’innovazione. Come sottolineano Buciuni e Corò, la competitività dei territori non risiede più soltanto nella specializzazione produttiva, ma nella capacità di costruire piattaforme cognitive: ambienti abilitanti in cui università, imprese, pubblica amministrazione e comunità locali co-progettano traiettorie di sviluppo. Non bastano competenze e tecnologie: serve una visione condivisa, in grado di attrarre talenti e generare valore.
È questa la montagna contemporanea che dobbiamo costruire: non un’imitazione della città, ma un laboratorio di futuro, dove la produzione industriale, la cultura e l’innovazione si integrano nel paesaggio e nella vita quotidiana. Sia chiaro. La montagna resta fragile, esposta, a volte chiusa e timorosa di fronte al cambiamento accelerato dei nostri tempi. Ma i giovani che vi si insediano possono attivare processi di rigenerazione che coniugano sapere e fare, tradizione e tecnologia. In filigrana, si legge una sfida al modello estrattivo metropolitano. Meno consumo, più cura. Meno velocità, più tempo condiviso. Sempre però in un’ottica di modernità che non può che essere la chiave per essere attrattivi, non solo per il fattore climatico.
In un contesto di incertezza ambientale e transizione ecologica, le scelte di vita in montagna possono rappresentare anche un modo concreto per riappropriarsi del futuro: creare una start up tecnologica, avviare una microfiliera, partecipare a una comunità energetica sono pratiche di innovazione dal basso, in cui le competenze si radicano nel territorio e generano valore diffuso e condiviso. È una nuova forma di cittadinanza produttiva, che integra sapere tecnico, sensibilità ecologica e capacità imprenditoriale, dentro un ecosistema che mette al centro la qualità della vita, la sostenibilità e l’innovazione.
Perché tutto questo non resti un fenomeno di nicchia, servono però politiche pubbliche coraggiose e sensibili ai luoghi. Non sussidi o acquisti di case a un euro, non operazione nostalgiche che parlano di borghi e fatica, ma investimenti intelligenti in infrastrutture digitali, mobilità sostenibile, servizi scolastici di qualità, alta formazione, intelligenza artificiale.
L’Italia può tornare a essere laboratorio di politiche territoriali innovative, se smette di guardare alla montagna solo con le lenti deformanti della città e delle ZTL. In un’epoca segnata da crisi multiple — climatica, sociale, demografica — le Terre Alte offre una lezione di equilibrio e possibilità. Chi oggi sceglie di abitare in quota non lo fa per tornare indietro, ma per immaginare futuri diversi, più giusti e vivibili.