Definire Belluno, la provincia si intende, come una zona periferica può essere corretto. Pensare che resti tagliata fuori dalle dinamiche proprie dell’economia della conoscenza, tuttavia, è una conclusione quanto meno affrettata, nonostante lo abbiamo sentito ripetere così spesso da essere diventato un luogo comune.
L’incontro di tre personalità, tutte di provenienza, esperienza e cultura esterne alle consuetudini bellunesi, ha smorzato lo stereotipo della montagna ‘bella e abbandonata’ e acceso una lampadina sui futuri possibili.
L’occasione è stata offerta dal GAL Prealpi e Dolomiti Bellunesi. L’intraprendenza della presidente Sara Bona ha riannodato i fili dell’Ecosistema Belluno e organizzato una serie di incontri di approfondimento. Martedì 7 ottobre a palazzo Crepadona il dialogo tra Roberto Santolamazza e Stefano Salvador è ruotato intorno al rapporto tra localizzazione e sviluppo da un lato e tra grandi imprese e start up dall’altro. Moderati da Giulio Buciuni, direttore scientifico dell’Ecosistema Belluno, i due ospiti hanno concluso che per i territori periferici la strada è sì più in salita, in particolare rispetto a quelle definite città superstar, ma il destino è tutt’altro che segnato. Ritagliarsi uno spazio è possibile, a patto di fare leva sugli asset già presenti per attirare quelli mancanti.
Il tema è quello ricorrente sui luoghi dove si generano nuove idee e producono innovazioni nell’economia della conoscenza, ovvero quel modello di sviluppo fondato non più sulla quantità di risorse naturali o di lavoro impiegato, ma sulla capacità di produrre, condividere e applicare conoscenza complessa: innovazione, creatività, ricerca e capitale umano diventano così le principali leve di crescita.
È un modello che valorizza i contesti che sanno produrre e condividere sapere, dove l’innovazione nasce dall’incontro tra ricerca, manifattura, cultura e creatività. Università, scuole, centri di ricerca, multinazionali, istituti finanziari costituiscono i nodi di un ecosistema capace di generare valore attraverso la conoscenza, l’apprendimento continuo e la cooperazione.
Contesti e nodi, appuntiamoci queste parole, non città e punti geolocalizzati di una mappa. Lo ha illustrato molto bene Stefano Salvador, responsabile del Supporto al sistema imprenditoriale di AREA Science Park. Trieste non è una città superstar, non è New York, Londra, Shanghai, ma neanche Milano, eppure è riuscita a far coagulare università, finanziamenti pubblici e imprese in quello che oggi è il principale parco tecnologico del Nordest.
Affermare che la localizzazione sia superflua non spiega il motivo dell’accelerazione sperimentata dalle città che concentrano tutti o molti degli asset dell’economia della conoscenza: università, finanza, grande impresa, talenti. Quindi è errato, ma certo oggi la geografia è un ostacolo meno alto. Di sicuro non è una condanna all’irrilevanza, soprattutto in presenza di determinate condizioni.
Roberto Santolamazza, procuratore speciale di t2i – trasferimento tecnologico e innovazione, lo spin-off del sistema camerale veneto per l’innovazione, si spinge ancora più in là. La nuova geografia è immateriale e si compone di conoscenza, contenuto, competenza. Elementi che vano messi a sistema, cioè condivisi per creare ecosistema e nuove filiere. L’apertura alle collaborazioni, poco importa se tra imprese prossime o lontane, diventa così un fattore di crescita complessiva di tutto il territorio.
Ecco allora che Area Science Park attiva una rete di laboratori, apre a Udine e poi a Salerno. Cosa ci fa un parco tecnologico triestino in Campania? «C’erano delle situazioni di ricerca per noi interessanti, con delle competenze specifiche e abbiamo deciso di sfruttarle», risponde Salvador.
Certo, si dirà, ASP è un ente cento per cento pubblico, quindi ci sono delle volontà politiche precise a muoverne i passi e la copertura dei fondi statali, il che significa una riduzione delle conseguenze in caso di fallimento. In realtà è la logica qui a essere interessante. Perché vale il medesimo ragionamento nelle relazioni tra privati. Ci sono territori, come Belluno, che non hanno tutti gli asset di Berlino o di Milano, ma neanche di Padova o Verona per restare nei confini regionali. Tuttavia degli asset, cioè dei nodi per creare un ecosistema innovativo ci sono. «Intanto le università», ha ricordato Buciuni, «la Luiss Business School ha cominciato a fare delle cose interessanti qui. L’Università di Padova è presente con dei laboratori in Alpago e si sta lavorando per portare una facoltà Stem in città. Poi, ovviamente c’è un panorama produttivo manifatturiero molto vivace».
Le grandi e medie imprese e qui ce ne sono diverse, ha argomentato Santolamazza, possono attirare startup da tutta Italia. Per introdurre nuove tecnologie nei processi o nei prodotti, per una grande organizzazione è più agile fare dei progetti pilota con una startup anziché avviare un lungo processo per acquisire le competenze necessarie per poi adottare l’innovazione sperata. È più veloce e meno costoso adottare chi quelle conoscenze le ha già disponibili e pronte a metterle a frutto.
Lo fa Area Science Park che, partendo da esigenze specifiche delle grandi e medie imprese, attira giovani imprenditori in grado di soddisfarle, li mette in contatto e li avvia a un percorso di 2 o 3 mesi per la realizzazione di un prototipo. «In risposta alle nostre call arrivano domande di partecipazione da tutta Italia», riporta Salvador. Il progetto pilota serve soprattutto a capire se i due soggetti possono lavorare insieme, se vedono prospettive a medio e lungo termine. Se il rapporto va a buon fine la piccola impresa startup si radica e aggiunge un nodo alla filiera. Ed è un nodo importante, perché quasi sempre ad alto contenuto tecnologico, quella piccola impresa è sulla frontiera dell’innovazione e consente di aggiornare non solo un prodotto o una procedura, ma soprattutto il modo di fare impresa.
È un modo, conclude Buciuni, «per rigenerare le abilità di un territorio, il suo saper fare, la sua intelligenza. Per questo anche a Belluno ci attendiamo che, presto o tardi, un’organizzazione di medie o grandi dimensioni decida di avviare una partnership con una giovane impresa capace di abilitare cambiamenti che, da sola, la multinazionale avrebbe faticato ad attuare».